Disturbi del sonno e rischio di demenza di Alzheimer

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E’ a tutti noto che il sonno è essenziale per le nostre capacità cognitive, ed in particolare per il processo di immagazzinamento delle informazioni, ossia il consolidamento della memoria.

Ma quali sono i più recenti dati della ricerca in questo ambito?

Fasi del Sonno ed effetti della sua privazione

Studi sui Disturbi del sonno

Sonno Profondo e Alzheimer

Fasi del sonno ed effetti della sua privazione

Studi condotti in modelli animali hanno evidenziato che la privazione di sonno accelera l'aggregazione di β-amiloide (una proteina normalmente prodotta, ma anche eliminata nel cervello sano) in placche extracellulari, che sono caratteristiche della malattia di Alzheimer.
La privazione di sonno nell'uomo determina un aumento dei livelli di β-amiloide.Viceversa un sonno di buona qualità, con una significativa presenza della sua parte più profonda (Stadio 3 non-REM), consente di eliminare questa proteina ed altre sostanze di scarto.
Questo processo di “pulizia” avviene grazie al sistema cosiddetto glinfatico, molto efficiente proprio nel sonno profondo non-REM.

Studio sui Disturbi del sonno


In un recente studio condotto in soggetti anziani sani, senza deficit cognitivi, è stato evidenziato che una ridotta percentuale di stadio 3 non-REM era associata ad un aumento di β-amiloide nel liquido cerebrospinale.
Quindi non è solo importante dormire, ma occorre considerare anche la struttura del sonno.

Infatti, anche il sonno REM, quello associato ad una intensa attività onirica, sembra avere un ruolo importante.Sonno e Memoria - Disturbi del sonno e alzheimer
Uno studio longitudinale in soggetti americani di 60 anni, seguiti per 12 anni, ha mostrato che gli individui con ridotta quantità di sonno REM all'esame di base, avevano un maggior rischio di sviluppare una demenza di Alzheimer.

E per quanto riguarda specifici disturbi del sonno?
Alcuni studi recenti hanno evidenziato che vari disturbi del sonno sono da considerarsi marker predittivi del possibile sviluppo di una demenza.
Due studi condotti su un vasto numero di soggetti in Svezia e a Taiwan, seguiti per diversi anni, hanno mostrato che l’insonnia (anche nei soggetti sotto i 40 anni) è correlata con un maggior rischio di sviluppare demenza.
Peraltro, un altro recentissimo studio condotto su 2457 soggetti, di età media di 72 anni, seguiti per oltre 10 anni, ha evidenziato che una durata del sonno notturno superiore a nove ore è associata ad un rischio maggiore di sviluppare una qualsiasi forma di demenza.
Probabilmente dietro ad una lunga durata del sonno può esserci un disturbo respiratorio nel sonno, come la sindrome delle apnee morfeiche ostruttive (OSAS).

Sonno Profondo e Alzheimer

Infatti, se l’insonnia sembra essere un fattore di rischio solo per la malattia di Alzheimer, l'OSAS è un fattore di rischio non solo per la demenza vascolare (in rapporto ad ipertensione arteriosa e aterosclerosi) ma anche per tutte le altre forme di demenza.
Recentissimamente, è stato dimostrato che i pazienti con OSAS hanno un ridotto funzionamento del sistema glinfatico (con conseguente rischio di accumulo di β-amiloide) associato ad una riduzione del sonno profondo non-REM.
Il trattamento con apparecchio a pressione positiva d’aria (CPAP) consente di incrementare la percentuale di sonno profondo e, parallelamente, di ridurre i livelli di β-amiloide. Accanto a questi risultati che indicano come il trattamento dell'OSAS possa ridurre il rischio di demenza, ci sono studi che hanno mostrato come in pazienti con Alzheimer il trattamento di una concomitante OSAS con CPAP, può rallentare la progressione del deficit cognitivo.

BIBLIOGRAFIA

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Shi L, Chen SJ, Ma MY. Sleep disturbances increase the risk of dementia: A systematic review and meta-analysis. Sleep Med Rev. 2018; 40:4-16.

Chen DW, Wang J, Zhang LL et al. Cerebrospinal Fluid Amyloid-β Levels are Increased in Patients with Insomnia.  J Alzheimers Dis. 2018;61(2):645-651.

Ju YS, Zangrilli MA, Finn MB et al. Obstructive sleep apnea treatment, slow wave activity, and amyloid-β.Ann Neurol. 2019; 85(2):291-295.

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